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Su l’Origine du monde di Maggie Cardelús

L’offerta sembra, a prima vista, molto attraente, quasi ci fosse scritto “bevimi” in caratteri particolarmente seducenti – eppure già ad un primo sguardo dovrebbe essere chiaro che niente qui è così semplice. Le fotografie ritagliate formano un intricato labirinto di frammenti interconnessi – eppure, la figura grottesca a cui essi danno luogo è caratterizzata da una simmetria che sembra voler prevenire un eccessivo disorientamento. La precarietà di questa ‘origine del mondo’, fatta di delicate strisce di carta e degli spazi vuoti, dei pori e dei buchi che le separano, è quasi allarmante. Ciononostante, questa fragilità ha un’aria raffinata e disinvolta. Lentamente, si impone. Le immagini ritagliate, adorne di motivi decorativi, danno vita ad una battaglia tra ordini contraddittori che sembrano cercare un equilibrio nel loro disaccordo. L’artista altera quotidianamente l’aspetto dell’opera, ingarbugliando ulteriormente la fragile ragnatela mediante intricate incisioni che diventano ancora più minute. Eppure, l’opera sembra aspirare ad uno stato di completezza. L’instabilità e il cambiamento non giungono ad eliminare completamente la dimensione dell’autorità. Forse, ciò che rende quest’opera così affascinante è il fatto che essa non abbandona il piacere e il gioco per perseguire le proprie aspirazioni estetiche e concettuali. Man mano che l’osservatore la assapora, l’opera assume un aspetto sempre più curioso, in quanto sembra distorcere e capovolgere temi che hanno a che vedere con la transizione, il racconto, la visione, il viaggio: in altre parole, tropi connessi con la dimensione del tempo.

Labor & Leisure

L’artista lavora, e il suo lavoro è contrattuale: deve rispettare l’orario di apertura della galleria e la durata della mostra, e deve inoltre obbedire ad una regola prestabilita di simmetria che sembra un eccentrico capriccio impostole da un capo che però non è altri che lei stessa. Il suo lavoro non solo è manuale e ripetitivo, ma sembra addirittura avere una dimensione autopunitiva, data dalle restrizioni che la tecnica adottata impone e dal costante pericolo che il risultato finale venga messo a repentaglio da un movimento errato del taglierino. È, inoltre, un lavoro dimostrativo, in quanto l’artista è presente a volte direttamente sulla scena come parte dello spettacolo, oppure indirtettamente attraverso le tracce di un lavoro che connota l’oggetto come ontologicamente precario e sospeso nel tempo: un work in progress.
Questo tema del lavoro evoca la concezione modernista, rivoluzionaria, utopica (sviluppata, per esempio, da Walter Benjamin) dell’arte come una forma di produzione socialmente impegnata in cui il lavoro dell’artista è visto come finalizzato al benessere di una comunità. Nel caso di Cardelús, però, vi è qualcosa di profondamente diverso. I prodotti del suo lavoro appaiono interni al lavoro stesso, e la loro utilità è quantomeno ambigua. Si tratta di un’attività enfaticamente solitaria, quasi insulare. L’aura dell’opera, data per morta, sembra brillare ogni istante di più, mentre le ’’riproduzioni tecniche’ diventano materia prima per la realizzazione di un oggetto unico. Ma non è tutto. La dimensione del lavoro appare ora intenzionalmente associata a quella del suo presunto contrario: il divertimento. Una produzione realizzata manipolando con destrezza delle foto di famiglia non è soltanto una creazione, ma anche una ricreazione. Questo aspetto, del resto, è presente in tutta l’opera di Cardelús, che ha impiegato in passato tecniche quali il ricamo, la tessitura al telaio, la lavorazione artigianale del vetro e del ferro battuto, o il disegno su piastrelle in ceramica, assumendo di volta in volta il ruolo dell’artigino stesso o quello del committente. Questo fondersi di lavoro e divertimento, produzione e piacere, impegno e tempo libero, mi suggerisce un confronto, al tempo stesso ridicolo e costruttivo, fra l’installazione Taglio. L’Origine du monde (II) (1998) di Cardelús, cui mi riferirò d’ora in poi con il titolo L’Origine, e la nota performance intitolata Sed Bed (1971) di Vito Acconci. Per tutta la durata della mostra, Acconci rimase disteso al di sotto del pavimento della galleria, appositamente rialzato mediante una rampa leggermente inclinata, masturbandosi continuamente e tentando di tessere le proprie fantasie sul movimento dei visitatori, che non poteva vedere ma di cui sentiva i passi sopra di sé. Sebbene L’Origine presupponga la costruzione di un oggetto e Seed Bed la sua assenza, in entrambe le opere viene messa in scena un’ambivalenza attraverso un lavoro auto-imposto: una tecnica lavorativa associata con il piacere e il divertimento assume la dimensione di un’imposizione auto-punitiva, auto-inflitta e al tempo stesso accettata con comico entusiasmo. Entrambe le opere tentano di stabilire un contatto con l’osservatore attraverso atti di abbondante e manifesta devozione. Entrambe, inoltre, mostrano la problematicità dell’isolamento e della divisione tra sfera pubblica e privata, nonché la futilità dei mezzi artistici. Entrambe, in altre parole, agiscono sulla base di una fede e ne mettono in luce i problemi. Ma vi è ancora un altro aspetto cruciale nel laborioso piacere presentato da L’Origine. Il meticoloso sforzo e l’impegno manuale che la caratterizzano costituiscono una ribellione contro l’istantaneo, l’affrettato, il preconcetto, e il facile consumo. L’Origine tenta un ritorno alla lentezza della riflessione e della creazione attraverso il lavoro, i cui prodotti obbediscono ad un ethos del tempo. Ed è in questo senso, diversamente rispetto a quanto avviene nell’opera di Acconci, che possiamo pensare all’opera di Cardelús come ad un lavoro d’amore.

Genesis

Se L’Origine ha un’origine artistica, questa deve essere senz’altro rintracciata nell’omonimo dipinto di Courbet, L’Origine du monde del 1866, l’impassibile raffigurazione di un sesso femminile. Il carattere scioccante del dipinto non risiede nella sua provocatoria fusione di arte e oscenità, né nel carattere sacrilego e laconico di questo punto di vista sul nudo e sul mondo.

Nell’insieme della storia dell’arte occidentale e delle sue convenzioni rappresentative, il dipinto di Courbet costituisce un’evidente eccezione rispetto a quella che Leo Steinberg ha definito ‘la paura della fessura’, ovvero il timore provato da un’arte (maschile) di fronte a quella nudità femminile che pur continua a dipingere ossessivamente. Questo timore sarebbe alla base di un’onnipresente convenzione fatta propria tanto dalla pittura che dalla scultura: la tendenza a rendere liscia la superficie della ‘fessura’, nascondendone l’apertura.

Non c’è da meravigliarsi che Jacques Lacan sia stato tanto affascinato dal dipinto di Courbet. Se per Freud guardare gli organi genitali femminili significava al tempo stesso constatare un’assenza (quella del pene), e osservare una ferita sanguinante capace di evocare tanto l’orrore della cecità che l’ansia della castrazione, Lacan estende questo tema dell’assenza, della mancanza, ancora oltre. Nella concezione lacaniana il fallo è il perno su cui si fonda l’ordine simbolico, discorsivo e quindi l’esclusione della forma femminile da parte del discorso fallocentrico è il vero e proprio presupposto su cui si fonda il discorso stesso.

L’immagine di Courbet riecheggia dunque lo sconcerto maschile di fronte alla vista della fonte di tutti i problemi, l’origine: il sesso femminile come visione che ammutolisce, come luogo di fronte al quale il discorso viene ridotto al silenzio. L’opera di Cardelús presenta una complessa rilettura di questo tema. L’intera figura dell’Origine è a forma di mandorla, ed evoca l’associazione tra la vagina e la mandorla, la cornice ogivale che circonda abitualmente la Vergine nell’iconografia cristiana medievale. L’intera scultura viene così trasformata in un sesso femminile.
Questo espandersi della ‘fessura’ fino ad inglobare il resto del corpo – una drastica reazione nei confronti della storia delle convenzioni rappresentative – non è completamente privo di precedenti. Nell’opera Eviscerated Corpse (1989) di Mike Kelley, alcuni animaletti di pezza vengono sventrati e poi ricuciti insieme per dar luogo a una figura grottesca in cui le piccole teste, gambe e braccia sembrano far parte di un gigantesco corpo-‘fessura’ squarciato, dal quale fuoriesce, strisciando sul pavimento, un serpente dall’aspetto scatologico. Se per Freud castrazione e accecamento sono fenomeni correlati, Eviscerated Corpse reagisce all’ansia da essi provocata attraverso un intensificarsi della visione dei genitali e delle interiora mediante la quale l’oggetto-feticcio assume il posto del soggetto – un’esplicita allusione all’unheimlich freudiano.

L’opera di Kelley risponde con lo humour e la provocazione all’ansietà associata alle membra femminili, pur assumendo quest’ultima come presupposto. Cardelús, invece, suggerisce in L’Origine un ripensamento della concezione del discorso e della rappresentazione. In quest’opera un corpo a forma di mandorla fuoriesce dalle bocche di due giovani donne, l’artista stessa e sua sorella Sarah. Guardandosi l’un l’altra esse creano il luogo femminile come immagine di un dialogo – un dialogo che è anche un monologo, dato che il corpo è unico. In questo modo, il femminile non solo significa e appare come un’iconografica cornucopia: esso viene addirittura presentato come emblema del discorso, del ‘simbolico’ per definizione, della legge del padre posseduta dalle figlie.

Si potrebbe ricordare, a questo punto, l’osservazione fatta da Angela Carter secondo cui attribuire il discorso al corpo e al desiderio femminili comporterebbe un duplice rischio: da un lato quello di sottomettersi alle regole del desiderio maschile (secondo la cui logica la voce femminile dovrebbe rassicurare l’uomo mostrando disponibilità e sottomissione), dall’altro quello di attribuire al femminile l’ambiguo potere del mito, insistendo su quegli ingannnevoli attributi che in esso vengono associati alla femminilità, quali l’organico, il naturale, il nutriente, ecc., continuando così però a negare al femminile stesso lo statuto di un vero e proprio soggetto.

L’intuizione della Carter può essere sviluppata attraverso un riferimento ai Bijoux indiscrets di Diderot (1748). In questo racconto i genitali femminili parlano, ma la loro loquacità è magicamante provocata dal sultano, che si intrattiene con queste imbarazzanti confessioni di impudiche scappatelle, segreti rivelati da labbra pettegole e irriverenti nella più totale costernazione delle dame cui esse appartengono. Vi è una strana simmetria inversa tra il racconto di Diderot e il celebre film pornografico Deep Throat. Se nel primo le vagine parlano per appagare il desiderio maschile del sultano, mentre le donne cui esse appartengono ammutoliscono, la bizzarra protagonista femminile di Deep Throat, che ha un clitoride in mezzo alla gola, viene soffocata e azzitttita per soddisfare il suo stesso desiderio.

L’Origine è concepita al tempo stesso nella piena consapevolezza di questi problemi legati allo statuto del discorso, e nel rifiuto di obbedire alle loro regole. La vista che essa offre, un corpo che fuoriesce da due bocche, è una narrazione complessa e non-lineare, un giardino dei sentieri che si biforcano. La distinzione tra ‘immaginario’ e ‘simbolico’ è negata, rendendo così inadatte e riduttive tutte le interpretazioni che si fondano su questo modello binario. Il femminile non viene definito, decodificato o incapsulato, bensì esperito come eterogeneo. Nel contesto dell’arte contemporanea è molto audace affrontare positivamente, come fa L’Origine, il ruolo famigliare e materno della donna. Ma il fatto che essa sia capace di farlo non è né il segno di una glorificazione reazionaria né qualcosa che finisce per consumare o esaurire l’identità della donna stessa: si tratta di elementi costituiti, piuttosto che di norme costitutive. L’Origine diviene dunque un luogo nel quale desiderio e discorso sono interconnessi in modo da sollecitare un incontro ‘esperenziale’ piuttosto che ‘interpretativo’. Il femminile non viene presentato come una mera reazione dialettica al maschile, besì come capace di creare delle proprie regole rappresentazionali, rivendicando il diritto di porsi come un’origine. E il fatto che tutto ciò avvenga con molta ironia, con evidenti dubbi, e con molti nodi e grovigli, rende questa rivendicazione ancor più fondata.

Family Time

Le immagini di cui si compone L’Origine si riferiscono esclusivamente ai parenti stretti dell’artista, raffigurati sia in semplici fotografie istantanee che in ritratti più formali realizzati in occasione del matrimonio dell’artista stessa. Le artiste che lavorano con la fotografia sono state spessp propense a utilizzare le proprie famiglie come tema, spesso investigando le tensioni tra un intrinseco senso di sicurezza , intimità , e nostalgia, e altre dimensioni incommensurabili. Nell’opera di Tina Barney, per esempio, le scene di famiglia sono prive di sentimentalismo: i protagonisti assumono delle pose rigide e convertono i salotti e le sale da pranzo in un palcoscenico su cui mettere in mostra il benessere dell’America suburbana. Nelle fotografie di Sally Mann, invece, i corpi ancora acerbi delle figlie dell’artista introducono lo spettatore all’interno di una scomoda scissione tra un’autentica intimità e un desiderio proibito: un dramma morale.

La famiglia Cardelús presente in L’Origine è, però, meno tangibile. Man mano che lo sguardo dell’osservatore si addentra tra le pieghe dell’opera, seguendo i sentieri tracciati tra le figure amate e un passato privato, la possibilità di identificarsi con i personaggi e di vivere la loro storia è al tempo stesso affermata e negata. Infatti, mentre da un lato l’identità della famiglia è rappresentata nell’opera con abbondanti dettagli e nuances (rendendo quest’opera una strana forma di realismo), dall’altro essa mantiene i propri segreti all’interno della famiglia stessa, rendendoli invisibili allo sguardo di un osservatore esterno. L’Orogine preclude la possibilità di trasfomare l’esperienza di questa famiglia in un’affermazione univoca. E ciononostante il tempo passato con questa famiglia ha alcune peculiarità che danno a quest’opera la propria voce drammatica.
Innanzitutto, vi è l’ambivalenza tra il ricordare e il rimuovere, il calore e l’aggressione, la gentilezza e la violenza. L’artista considera la propria famiglia come il più interessante dei soggetti, anche là dove le immagini dei membri che ne fanno parte vengono ritagliate, frammentate, a volte perfino sfigurate. Le trame sovrapposte di immagini e ricordi corrispondono alla stratificata strategia messa in opera dal gesto artistico, fino a dar vita ad un labirinto che diviene via via più intricato con il passare del tempo. Al limite, si può dire che L’Origine esprima le proprie incertezze e i dubbi relativi alla propria identità attraverso l’audace libertà messa in mostra nella manipolazione dei propri soggetti, esponendoli e nascondendoli ( e, paradossalmente, il gesto iconoclastico di incidere la faccia assume un senso protettivo, mentre l’atto del rivelare e ornare i lineamenti viene, al contrario, interpretato come aggressivo).
In una seconda istanza, il tentativo di individuare in queste fotografie un unico punctum, per usare il termine di Barthes, è una fatica di Sisifo. Le immagini si intrecciano a tal punto che la ricerca di un unico punto di riferimento è ironicamente vanificata. Ma il vero risultato è che questa dispersione non finisce per essere una diluizione o una perdita, che negherebbe alle immagini la loro integrità. Al contrario, l’opera diviene una pletora di puncta, una moltitudine di punti per una retina instancabile.

Infine, dopo aver trascorso del tempo con questa famiglia, si arriva a capire che essa funziona non come una semplice sineddoche rispetto al resto del mondo, ma come il suo vero e proprio sostituto. Escludendo ogni immagine che non si riferisca alla dimensione domestica, L’Origine presenta questa famiglia come autosufficiente. Sul piano dell’oggetto, questa autosufficienza viene resa attraverso un’illimitata varietà e complessità di dettagli che aprono possibilità illimitate, dando luogo ad una sorta di L’Origine autarchico. Sul piano dell’azione, essa è invece suggerita dal fatto che questo lavoro di scavo nella famiglia potrebbe andare avanti all’infinito, come un perpetuum mobile.

Time and Space

lice si fida di ciò che è scritto sull’etichetta del bicchiere, e beve. Ne descrive il gusto come “un incrocio fra il sapore di una crostata di ciliegie e quelli di una crema pasticcera, di un ananas, di un tacchino arrosto, di una caramella mou, e di un toast caldo al burro.” O, in altre parole, come “molto buono.” Ma anche le più buone combinazioni sono spesso pericolose, in quanto mettono in discussione le classificazioni, le gerarchie, l’ordine, la purezza, minacciando di sovvertire il mondo. L’Origine è un miscuglio di questo genere, con la sua bellezza seducente e la sua generica complessità, un amalgama improbabile: fotografie riconoscibili che diventano materia prima per virtuosistici ritagli; rappresentazioni figurative da cui nascono trame astratte; forme geometriche che si accumulano fino a dar luogo a figure antropomorfiche; vignette grottesche apparentemente coerenti rivestite di un aspetto razionale: fantasie architettoniche che richiamano decorazioni murarie; figure che diventano supporti, e supporti che si trasformano in figure, al tempo stesso bi-e tridimensionali: installazioni, infine, che sono simultaneamente artigianato domestico, narrazione, fotografia.

Il timore delle fusioni ha una ricca genealogia, e la lotta contro di esse è manifesta nella natura stessa dei modelli binari: soggetto e oggetto, natura e cultura, anima e corpo, spazio e tempo, maschile e femminile, parola e immagine, attivo e passivo, poesia e pittura. Gli autori dei bestiari medievali, per esempio, consideravano gli animali come allegorie divine. La bestia ibrida e impura rappresenta spesso il diavolo, il male, i Giudei. La più spaventosa di tutte è la iena, in quanto”…prima è maschio e poi femmina, e dunque è una bestia malvagia…”.

Vi è un’analogia tra questo orrore per l’ibrido e la ripugnanza per la confusione espressa nella storia dell’estetica, da Lessing a Greenberg. Ogni genere artistico dovrebbe rispettare la propria essenza, mentre ogni confusione di mezzi finirebbe per infangare l’arte sporcandola. Come mostra W.J.T. Mitchell nella sua acuta lettura di Lessing e Burke, i termini del modello binario sono interconnessi. La poesia opera nel tempo, le sue parole provengono dal soggetto parlante, è mentale, colta, maschile. La pittura, invece, opera nello spazio, le sue immagini sono silenziosi oggetti da contemplare, è riferita al corpo, imita la natura, ed è femminile. In opere come L’Origine, le suddivisioni binarie non sono negate né abbandonate, bensì piuttosto ripensate attraverso l’esperienza, il dubbio, la fantasia, l’ingegno. Le scissioni tra spazio e tempo, piacere e lavoro, femminile e maschile, desiderio solitario e ruolo materno, non sono tanto rimosse quanto messe in discussione con un atteggiamento relativizzante. In questo, se da un lato l’opera di Cardelús ha dei precursori come Mary Kelly e Carolee Schneemann, essa è tanto lontana dalla cerebrale esaltazione della maternità della prima che dall’inequivoca sensualità della seconda. Ciò che viene negato da questa di posizione è un senso di risoluzione. Osserviamo ancora la figura dell’Origine, e consideriamo i due profili femminili che ne costituiscono i due vertici. Essi ondeggiano costantemente, a mio parere, tra due fantasie mitiche reciprocamente contraddittorie. Da un lato, i due profili costituiscono una sorta di doppia testa, richiamando così immagini femminili di mostruosa ambiguità, come l’ Idra o la Medusa. Dall’altro, gli stessi profili possono essere visti non tanto come le teste di una mostruosa creatura, quanto come le sue due braccia alzate, rendendo questa figura una sorta di acéphale, l’uomo senza testa che divenne un simbolo cruciale per Geoges Bataille nella sua rivolta contro ogni filosofia della ragione e dell’ordine. Consideriamo inoltre il modo in cui in entrambe le figure i capelli sono raccolti all’indietro, richiamando le convenzioni della ritrattistica regale e al tempo stesso enfatizzandone l’aspetto vacillante e precario. Proviamo, infine, a cogliere le diverse implicazioni connesse con il fuoriuscire dell’intera opera dalle due bocche, il che la spinge tanto verso l’alto (il discorso) che verso il basso (la saliva), mentre forse essa non è altro che un accumulo di secrezioni di un grande corpo poroso che ospita un mondo intero e indaffarato. L’Origine, in altre parole, vive nel tempo pienamente assorta nel proprio essere. Le sue tentazioni sono cariche di tensioni. La sua esperienza combatte le soluzioni con determinazione, ma mai con la stasi.

Roee Rosen

Works cited:

Barthes, Roland, 1981. Camera Lucida, Reflections on Photography, translated by Richard Howard (New York, Hill & Wang).
Benjamin, Walter, 1969. “The Work of Art in the Age of Mechanical Reproduction,” Illuminations, translated by Harry Zohn (New York, Schocken), pp. 217-252.
Benjamin, Walter, 1986. “The Author as Producer,” reflections, translated by Edmund Jephcott (New York, Schocken), pp.220-238.
Carter, Angela, 1978. The Sadeian Woman and the Ideology of Pornography (New York, Pantheon Press).
Diderot, Denis, 1993 (1748). The Indiscreet Jewels, translated by Sophie Hawkes (New York, Marsilio).
Freud, Sigmund, 1957 (1919), “The ‘Uncanny’,” The Standard Edition of the Complete Psychological Works, translated by James Strachey (London, Hogarth Press), volume XVII, pp.217-252.
Lacan, Jacques, 1977. “The Signification of the Phallus,” Ecrits, A Selection, translated by Alan Sheridan (New York, W.W. Norton), pp. 281-292.
White, T. H., translator and editor, 1954. The Book of Beasts, A Latin Bestiary of the Twelfth Century (New York, Dover).