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Sabi

Text for Sculpture for an Unconsecrated Church, 2006

Maggie Cardelus affronta in questo lavoro un luogo per lei domestico ma inedito: il suo studio; un supporto che conosce bene, ma che usa diversamente: la fotografia, presentata in movimento sotto forma di video. Il luogo è un laboratorio nello stesso tempo fisico e mentale, chimico e alchemico, metaforico e iconografico. Il lavoro fotografico, innumerevoli scatti che riprendono con spostamenti minimi lo studio che si popola o si spopola di oggetti e di luci, di cose e di immagini, di vani vuoti o pieni, di finestre sbarrate o spalancate, di vetri trasparenti o protetti da tendaggi, di porte aperte o socchiuse, di battiti d’ali digitali sui monitor, di opere appese o poggiate contro il muro, di fotografie, immagini, libri, cd, ventilatori…., insomma una folla di oggetti a volte simili, a volte diversi, mai uguali, mai nello stesso punto, mai fissati nella stessa frazione di tempo. Non si tratta però di un “viaggio intorno alla mia camera”, perché al centro dello studio, al centro del suo tavolo di lavoro e dunque del suo sguardo, non c’è lei, né l’immagine che le rimanda lo specchio, non c’è un riflesso del mondo proiettato sul fondo di una parete, c’è un vaso di fiori. Nel bel mezzo della sottile cornice bianca che delimita il tavolo, i fiori vivono la loro vita di bellezza ornamentale, raccontando per interposta immagine fissa, della loro natura recisa e acculturata per il tempo della fioritura e della sfioritura, i petali cadono e ritornano ciclicamente al loro talamo in un’altalena di nascita e di morte. Gli oggetti sullo sfondo sono la scenografia del tempo interiore, mutevole, eppure saldamente ancorata ai bordi della ripresa.

“La cuisine de Maggie è forse la definizione più pertinente per visualizzare il laboratorio delle idee e delle cose, il luogo mentale e fisico dell’operare artistico, un luogo che contempla la dedizione e l’operosità, l’uso dell’ingrediente primo che nutre il corpo come la mente e la trasformazione creativa dello stesso, l’immagine come l’alimento, il supporto fotografico e il cutter, un laboratorio materno e crudele, che mi fa preferire in questo tentativo di definizione, la cuisine, la cucina più solare, al suo equivalente italiano che sottolinea invece l’opacità incandescente e la fissità plumbea che pesa nell’idea di fucina e dei suoi manufatti.

Colpisce qui soprattutto la persistenza dei suoi temi e dei suoi procedimenti.

La Cardelus ha appositamente pensato il lavoro per una collocazione al di sotto di una grande cornice vuota appesa nella nicchia absidale di una chiesa sconsacrata. Cosa ci fosse in quella cornice non si sa, ma il vuoto che vediamo oggi ci fa pensare e ci lascia immaginare. Vi era una Madonna col bambino ? O Cristo sulla croce? Oppure Cristo redento ? Di qualsiasi soggetto trattasse, era con una certa probabilità una raffigurazione del tema della nascita o della morte, che sono anche i temi fondativi della riflessione artistica della Cardelus, i quali, proprio in funzione di questo spazio e di questo luogo preciso all’interno della chiesa, sono spontaneamente saliti alla ribalta.

E, da seguire ancora, ecco un altro filo che trama il suo lavoro in generale.

L’incisione, il taglio inferto con il cutter sono il suo pennello e la sua matita, strumenti con i quali scava nella superficie fotografica, che qui si traspongono nel digitale. In quest’opera, gli scatti fotografici sono accostati e riproposti nella sequenza computerizzata per simulare un tempo continuo. Ogni tanto, un tempo più rapido o più lungo sembra inceppare il ritmo, quasi fosse un difetto di montaggio : il video si ferma, riparte, va più veloce, rallenta, riparte. Rieccoci dunque al lavoro di cesoia che qui fende il tempo in un buco nero dove implode la narrazione. Ma lo squarcio, come in ogni entredeux, in ogni intermezzo, mentre sembra fermare il tempo del racconto rivela se stesso: lo sentiamo, in effetti, all’opera. Qui Maggie Cardelus sembra giocare a nascondino con il tempo narrativo, come altrove con lo spazio.

Il suo lavoro è sempre sulla soglia tra due momenti, tra due supporti : questa è una costante molto vitale poiché la soglia stessa non è statica, ma è il tempo del cambiamento, là dove i due momenti, i due media prescelti coincidono nella loro trasformazione.

In questo lavoro poi, forte, è l’idea estetica del tempo. Sabi è forse la definizione più adatta: è una parola giapponese, cara a Andrei Tarkovski. Sabi si sofferma sulla velatura che il tempo produce sugli oggetti, ma non si tratta propriamente di ciò che noi chiamiamo la patina del tempo. Sabi è ciò che il fluire del tempo deposita sì sulle cose, dotandole però di un di più di bellezza, è un concetto nel quale la nascita e la morte sono ciclicamente connesse come lo sono il vaso di fiori e tutto ciò che scorre sullo sfondo del monitor.

Silvana Turzio, maggio 2006