Da anni il mio strumento è un coltello x-acto con una lama n. 11. Sul mio tavolo da taglio separo le immagini e le rimetto assieme molte volte in molti modi, spesso tagliando via intere sezioni. Le parti ritagliate e dimenticate definiscono i confini di ciò che rimane. Non penso che i buchi siano uno spazio vuoto, o negativo, bensì una sorta di aria limitata. Il taglio è controllato e i pezzi sono creati con estrema accuratezza. Quando mi si chiede perché ho scelto un mezzo così dispendioso in termini di tempo, a volte rispondo che, come donna e artista, devo rendere evidente la mia fatica, per rendere visibile il mio lavoro e per costringere il tempo ad avere un valore.
Sì, taglio con il coltello le immagini della mia famiglia, ma il sezionamento riguarda soprattutto la fotografia; il tempo che impiego e la cura che metto nel lavoro migliorano la violenza e aiutano lo spettatore a comprendere la tensione tra l’immagine e il mezzo. Ritagliando e rimodellando, ricostruisco il passato e, allo stesso tempo, creo un presente ex-novo: porto lo spettatore a non considerare più l’istantanea come un documento del passato (in ogni caso, che interesse potrebbe avere per le foto della mia famiglia?) e gli chiedo di riconsiderare il materiale e il rapporto emotivo che i nostri corpi hanno con le foto di famiglia e di riconoscerle come qualcosa che può essere modellato, cambiato, organizzato e controllato. Tutto ciò si comprende meglio se si prende in considerazione tutta la mia opera e il suo rapporto dialettico di dodici anni con l’immagine e l’album di famiglia. Mi sono adoperata per trasformare le foto in forme ibride che diventano disegno, scultura, ceramica o video. La fotografia, modellata e plasmata, viene trascinata nel movimento attuale della mia vita, del mio album e in un spazio nel quale è ricevuta oltre l’ambito domestico e oltre la portata della pura e semplice fotografia.
Sono affascinata da questo stesso impulso che ritrovo in altri artisti e del quale ho scoperto un esempio sorprendente leggendo Moortown Diaries di Ted Hughes. Nella sua poesia Coming down through Somerset del 1975, il poeta porta a casa un tasso che ha trovato morto sulla strada. Sa che dovrebbe sbarazzarsene, ma non lo fa. Giorno dopo giorno osserva il suo silenzio, esaminandone anche l’“immobilità,” ne considera tutti i dettagli, attraverso la pelliccia, la pelle e i muscoli fino al “cranio capolavoro.” Il poeta si chiede perché ha voluto fare entrare questa meravigliosa creatura morta nella sua vita, ma al lettore appare chiaro che il perché sta nella poesia stessa. La decisione di Hughes di raccogliere il tasso ha dato inizio ad un processo sperimentale consapevole di divenire un movimento indelebile della mente. Egli ha voluto intenzionalmente cambiare il corso di ciò che avrebbe potuto essere ordinario in modo da poter ricevere il suo dono. Ho permesso alle mie fotografie, i miei tassi morti, di trascinarmi dentro affinché io possa estrarle dalla loro immobilità ed esse possano togliermi dalla mia comodità.
Il progetto dell’album mi ha fornito l’occasione di essere madre in un modo diverso. I miei ruoli di madre/artista sono inseparabili. Non mi interessa capire la quotidianità, bensì cambiarla. La quotidianità minaccia di avvolgere le madri (casalinghe, operaie, lavoratrici di tutti i generi) in un lavoro ripetitivo e non riconosciuto, oltre che sottovalutato. Invece, il mio progetto fornisce una sorta di armatura alla quale gli eventi della giornata si attaccano con l’intenzione di diventare qualcos’altro. L’arte e la responsabilità si fondono in una cosa sola. Ho scoperto di avere la forza di concentrare alcuni dei significati per registrare, documentare, allevare, proteggere, insegnare, preservare e donare con amore. Approfitto di queste occasioni per sviluppare un progetto che si imprima nel mondo affinché altri lo possano vedere.
La ceramica shigarake giapponese mi fornisce un altro modo di pensare al mio lavoro. La tecnica shigarake trascina il tempo nel movimento di una vita per renderlo manifesto e per registrare il suo processo. La qualità e l’umidità del legno usato e la collocazione dell’oggetto nell’essiccatoio, la temperatura di cottura, la densità del fumo e la forma dell’oggetto sono controllati con cura, quasi meticolosamente, cosicché gli incidenti inevitabili durante le due settimane di cottura danno origine ad incidenti voluti che creano un oggetto con una presenza densa anche se inafferrabile. È un po’ come io vedo tutto il mio lavoro svilupparsi nel tempo, costruire lentamente significato: gradualmente, pazientemente. È anche il modo nel quale lavoro con fotografie e video basati sul tempo. Per Zoo, Age 10 (a birthday present for Zoo), ho editato 20.000 foto di famiglia (raggruppate in file di 10-50 immagini) su video, a circa 12 fotogrammi al secondo, in modo che i file si rimescolino a caso ogni 25 minuti. Il pezzo ha una durata di 10 anni e ricrea quindi l’arco di tempo di 10 anni del mio archivio. Per un video ancora in progress denominato Bedroom Inventory due anni fa ho sistemato una videocamera su un treppiede nella camera dei miei figli più piccoli, dicendo loro che potevano usarla solo per descrivere le cose della loro stanza. Fino ad ora abbiamo raccolto decine di ore di materiale che testimoniano come il rapporto dei bambini con le loro cose cambi nel tempo.
Il mio nuovo progetto è un video basato su foto intitolato something has to stay. Tutto è iniziato quando sono stata invitata nella regione di Echigo Tsumari in Giappone e ho deciso di portare con me mio figlio Zoo di dodici anni. E naturalmente anche la mia macchina fotografica. Il viaggio è stato intenso, ma potevamo non trarne profitto? Ho detto a mio figlio: “Zoo, vedi quella piscina vuota e abbandonata, laggiù? Perché non ti spogli e fai finta di fare un po’ di vasche?” Zoo mi ha guardato per vedere se parlavo sul serio e, va detto a suo merito, non si è fatto sfuggire l’occasione. Si è spogliato e ha nuotato mentre io scattavo le foto.
Ci siamo innamorati del progetto. Agire in questo paesaggio estraneo che ci circondava l’ha reso nostro. Fotografarlo l’ha reso più che nostro. Queste altre versioni del paesaggio ora appartenevano a noi, ai nostri ricordi e alle nostre esperienze, perché la rappresentazione ce lo rendeva più vicino. Coinvolgere i nostri corpi in modo cosciente, indagatore e scrutatore faceva la differenza. Ci siamo trovati a manovrare il paesaggio, apparentemente impenetrabile, nello stesso modo nel quale tratto le istantanee nel mio lavoro di ritaglio. La distanza inevitabilmente educata, che sentivamo mentre facevamo il giro turistico, veniva trasformata in un’intimità voluta. Ogni luogo diventava nostro affinché costruissimo un rapporto con esso e discutevamo incessantemente su dove collocare un’azione, cosa doveva essere quell’azione, come doveva iniziare e finire.
Quando siamo tornati a Milano e ho editato le foto su video, mi sono accorta che nonostante la struttura e la neutralità delle azioni di Zoo, il nostro lavoro era stato sufficientemente sciolto da consentirgli di assumere una vibrazione particolare e inaspettata, generata dalle tensioni e dai collegamenti tra soggetto, performance e luogo e anche quelli visibili tra madre e figlio.
C’è un segmento del video di 41 secondi, per esempio, dove Zoo è disteso in una buca dietro alcune radici. Zoo è un elemento del paesaggio sotterraneo che si muove lentamente sotto il piano della foresta. È chiaramente scomodo. La stranezza e l’instabilità della performance lo lasciano chiaramente indifeso. Muove il braccio, sposta la testa, sbatte gli occhi, cambia posizione. Le espressioni del viso sono appena accennate e fuggevoli ma è possibile notare incertezza, obbedienza, timore e impazienza. Zoo ha fatto fatica a dominare questa situazione scomoda e forzata, anche se ha lasciato che facesse il suo corso. L’ho tenuto collegato a me, a volte tramite sguardi reciproci (mentre lo osservavo da dietro la camera) e altre volte gridandogli istruzioni. Lo spettatore può avvertire la devozione filiale di Zoo e contemporaneamente la sua resistenza.
Tornando a quell’esperienza, , vedo che Zoo ed io abbiamo modellato il nostro progetto come argilla, dandogli una forma e facendolo poi caramellare come una glassa, guidando i nostri incidenti come un vasaio giapponese e ottenendo una stratificazione nel tempo, un divenire visivo. Portare a casa il castoro e osservarlo per giorni, assistere alla lenta cottura di un vaso, vedere cosa accade quando sei disteso sotto un albero come le radici, tutto ciò spiana la strada verso il momento, crea opportunità e mette in moto azioni delle quali non possiamo controllare gli effetti, effetti che devono essere volontariamente abbandonati alla sorte quando è il momento giusto, lasciando che mente e materia si pieghino agli eventi che si dipanano come essi vogliono (come quando si cresce un figlio o una figlia che poi se ne va per vivere la sua vita). Le tracce di questo dispiegarsi si depositano e si stabiliscono col passare del tempo dove potrebbero essere nuovamente raccolte e organizzate, magari su una mensola, in una poesia o in un video, per essere notati o letti in un altro momento di fortuna—in qualsivoglia modo lo spettatore (chiunque esso/a sia) lo ricreerà all’interno di se stesso/a.
A proposito del tasso Hughes scrive:
…Voglio
che resti com’é. Col lucido nerofumo della gola,
il muso perfetto. Le zampe così stanche,
il possente corpo esiliato. Voglio
che fermi il tempo….
Un tasso nel mio momento di vita…(*)
Il desiderio e la testardaggine di Hughes vogliono fermare il tempo, vogliono che il momento si imprima su di lui e nella poesia. Mio figlio, che ora ha tredici anni, è all’apice dell’adolescenza, quasi un bambino morto? Un adulto appena nato? Desidero trovare un modo per tenere in vita quel bambino? Forse è anche questo, ma c’è dell’altro.
La natura, sia animata che animistica, potente e vulnerabile, dolente e celebrativa, ha una sua centralità nel pezzo, come il rapporto ludico e senza paura che si sviluppa tra Zoo e la cultura giapponese. Zoo passa dall’imitare la natura (gli alberi, un corvo, un orso, l’erba alta) a creare interpretazioni personali di Noh, butoh, danza con i ventagli, cerimonia del tè, battaglia kendo, sumo, a fare comici giochi di destrezza con palle di neve in un cimitero, nuotare in una piscina vuota, aspettare di tuffarsi in una piscina sporca, costruire decine di piccoli pupazzi di neve, giocare a croquet senza una palla o una mazza, restare in equilibrio su un grande sasso o far finta di essere un santuario. I documenti visivi, non puramente video né foto, non cercano una rivisitazione nostalgica o una condivisione di quegli eventi. Gli eventi hanno preteso che ignorassimo o scordassimo di voler ricordare e ci hanno fatto concentrare sulla vitalità dell’atto fotografico in se stesso.
Sono tornata nel mio studio e sto montando tutte le sequenze fotografiche su video, elaborando i ritmi temporali: sto nuovamente modellando, spingendo e tirando le foto, allungando o comprimendo l’andatura. Il movimento di staccato determinato dal montaggio delle foto su video attira l’attenzione, come molti film sperimentali, sull’aspetto materiale della fotografia e sulle riprese stesse. Il mio interesse per un’immagine disturbata, in tutti i miei video appare un tremolio, proviene dal mio interesse per l’estetica della fotografia istantanea, un’estetica di errori, fortuna e cambiamenti. Mi interessa anche un’esperienza video che abbandoni il senso familiare di défilement, della pellicola che si svolge, per favorire una stratificazione o un’impilarsi silenzioso di foto e di tempo come un mazzo di carte. In questo pezzo, la sedimentazione fotografica nel video e quella geologica del paesaggio si fanno eco l’una con l’altra. Il pezzo è in fase di realizzazione ed è in attesa di emergere dal processo.
Un processo ne nasconde un altro, come un’immagine ne nasconde un’altra, una riga ne nasconde un’altra in una poesia o un punto di vista ne nasconde un altro, ogni momento che passa nasconde quello che lo ha preceduto, uno strato di sedimento ne nasconde un altro e un altro e un altro ancora. Probabilmente nulla rimane.
(*) Ted Hughes. ”Moortown Diaries.” In Hughes Poesie. A cura di Nicola Gradini e Anna Ravano, trans. Nicola Gradini, 732. Milano: I Meridiani di Mondadori, 2008.