Maggie Cardelus è un artista inter-mediale: l’eleganza faticosa del suo lavoro è risultato di accurata progettazione e accanita esecuzione, è esito d’una poetica che inscena le ragioni e le ossessioni del suo mezzo anche in rapporto alle regole e ai fantasmi d’altri procedimenti e di altre tecniche. Le immagini della sua arte sono ideate e costruite, difatti, interpretando un’alterità che non è materia una ma bina: materiale d’uso è il soggetto e il tema esistenziale (la memoria e lo sradicamento, la famiglia e l’infanzia), e materiale d’uso è il supporto e l’antecedente mediatico della storia di produzione dell’immagine (la fotografia come archivio mediale e precedurale).
La pratica dell’immagine, per Maggie, è dunque manipolazione di forme, manomissione di repertori di figure e significati simbolici, manovra di reimpiego e riformulazione di prassi operative e (auto) definizioni del mezzo, è insomma interpretazione e interpolazione di sintassi e origini specifiche dell’opera. Si tratta di tecniche e gesti, di segni e significati forzati non a coincidere ma a collidere, non ad ammutolirsi l’uno nell’altro ma a mutarsi l’uno con l’altro e a costringere – delicatamente ma decisamente – lo spettatore a rivedere le sue competenze percettive, emotive e cognitive.
Affaticato e affinato è il suo sguardo agli arabeschi del fotografico: la figura è persa nelle geometrie dell’ornamento; la somiglianza è presa nell’intrico dei motivi; la singolarità dell’oggetto della rammemorazione è privata dalle sue proprietà distintive; il sentimento emotivo e intellettuale dell’individuazione e del riconoscimento è sostituito dal piacere del contorno – o dal dispiacere d’un linea non totalizzabile – attivato da qualità e proprietà estetiche indipendenti dal soggetto e dalla figura. In questo paziente spopolamento del figurativo in forza d’una sovrascrittura geometrica di cui quasi nulla resta del soggetto (p.es. solo il verde e il giallo nella deformazione [nel morphing] digitale di Zoo Breathing In (2004), in questa velatura a rete astratta (micro- o macroscopica: p.es. Fountain (1999), White Piece with Colours (2000) e Turi with wings (2004), in questa dissoluzione dell’unicità e della pregnanza della figura nel ritmo ripetitivo e simmetrico del modulare, il soggetto fotografato ha subito una trasformazione tanto discreta quanto radicale.
Ma anche il medium fotografico. La bidimensionalità è infoltita o esfoliata e la superficie del supporto è estesa in profondità o consistenza, come per iperfetazione o apparente aggiunta. [Tachisme di] Tatuaggi senza corpo, escrescenze cresciute parassitarie sulle figure come muffe o funghi, o sbocciate dal loro intimo segreto come efflorescenze oniriche (Catherine’s Temptations (1999)), profluvio generativo d’immagini dalla ferita all’immagine (Laura’s Inheritance (2003). Fioriture tumorali o vegetali, forature, feritoie e ferite nella carta – carta estenuata per privazione di peso e grana, carta estatica d’una malattia del disegno in cui morfologia naturale e tecnica artistica, scrittura e cancellatura, sono finalmente indistinguibili, come lo sono ricreazione e distruzione nella durata esausta dell’immagine mnestica.
E’ per via di levare, per estrazione e astrazione, che l’immagine acquista profondità e corpo, a danno degli elementi primi dell’immagine fotografica – bidimensionalità, verticalità, immediatezza, singolarità evenemenziale ed automatica della sua produzione.
Innanzitutto, non la piattezza della carta di stampa, ma lo spessore del supporto [subjectile] conquistato per via d’un ammasso da cui rimuovere e decurtare, d’una massa da cui portar via soma. E la singolarità identitaria del soggetto è messa in forse da quest’affollamento come di tegumento e cute, da questo affastellamento come di faglie e sfoglie tra immagini perfino in contatto a distanza, in forza della memoria dell’artista, tra diverse opere (p.es. tra Zoo When it Rains (2004) e la scultura di carta senz’immagini del salice dell’installazione View From My Mother’s House (2005)). Lo spettatore dovrebbe così immaginare un’iconologia della durata non solo del soggetto fotografato (e della sua riproducibilità) ma anche del materiale fotografico, qualcosa come un tempo-palinsesto del supporto e una durata empaticamente intra-mediale.
Poi, non la verticalità dell’istantanea, ma l’orizzontalità della grafica e dell’incisione: non la pittura o la fotografia da cavalletto, ma l’iscrizione, l’intarsio, il modellare per vuoti a schiena piegata, lo scavare e dissezionare i materiali – una anatomia astratta dell’immagine che sposa insieme la plasticità della scultura e l’aleatorietà dell’ornamentale, la costruzione di volumi e la loro dislocazione cinetica, il peso delle masse e la loro instabilità percettiva. Calcolatissime ellissi e simmetrie filanti come fuochi d’artificio, gli scarabocchi elaborati al computer sono per lo spettatore schermo aleatorio su cui proiettare le immagini-movimento e le orbite tracciate dal passaggio del vivente (Bella and Zoo (2003)), o specchio sidereo della fascinazione (Gathering Jellyfish (2005)) per il contatto imminente e sospeso con l’immagine-medusa. In questa poetica dell’ornamento la diffusione aniconica e metonimica del particolare a tutta l’opera e ad altre ancora, non è solo recupero simbolico d’una pratica perduta e minore come il ricamo– è sapere della mano tramandato di generazione in generazione, è gestualità ripetuta e appartenenza a una filiazione –, ma ha una valenza procedurale: è ripresa anacronistica d’un saper-fare artigianale che, riattivato anche attraverso la tecnologia digitale e applicato a un altro mezzo (il fotografico), trasforma e ricostruisce i significati dei media che impiega, interpreta l’inedito di ciò che esiste già.
Infine, non l’immediatezza e l’automatismo dello scatto fotografico, fissazione chimica e meccanica del repentino, ma la lunga progettazione e la prolungata fatica manuale, il lavoro muscolare e artigianale della mano – un lavoro amanuense del lutto.
La mano che si china sulle carte del passato è insieme armata e amante – s’inchina premurosa alle immagini e a quello che ne resta. Ma non per mostrarne quanto ne può afferrare il ricordo – quest’entomologo rapace – ma anzi per occultarlo e renderlo ancor più segreto: per esporre il recto delle fotografie svuotate in ricami di carta, per dare a vedere il retro delle immagini scarnificate in labirinti e simmetrie, alleggerite in arabeschi (Conversation in NY (2001)). Vietata ogni sfrontata e falsa intimità, negata ogni sfacciata narrazione [fabula] autobiografica, ogni dialogo frontale con lo spettatore è tacitamente dirottato altrove. Verso l’introspezione, ma anche verso l’interpretazione ironica della memoria di vari media: dovrebbe forse un’immaginazione infantile o popolare riempire i buchi bianchi e muti che occupano tutto lo spazio tra due figure femminili, quasi che queste invasive pozze insonore al posto delle amorevoli e intime conversazioni [lines of conversation] perdute per sempre fossero nuvolette [callout] da fumetto o fotoromanzo? (Tia Charo and Sarah (2000) ma anche Grandfather (2002)).
Mano materna – a far nascere innumerevoli e farfalle di carta fotografica, metamorfiche donne o bambine-uccello (Bird Lady (2004) e Fatima Flying (2004), entrambe alla personale Bird-People alla Galerie Thaddaeus Ropac di Parigi), col minuscolo corpo cesellato a simboleggiare il divenir-memoria-e-immagine delle anime perse, e a farle venir fuori a fiotti tutte queste Seelentierchen, queste piccole anime-animaletti che vivono dentro di noi.
Mano armata – a rendere crudelmente visibile allo spettatore la durata percettiva ed empatica dell’evento nel corpo vissuto del soggetto fotografato: le gocce di pioggia, i fiocchi di neve, le sagome bianche degli uccelli alti nel cielo, screziano e incidono l’immagine del corpo di colui che era là e sentiva, toccava, viveva tutt’insieme il mondo (Zoo When it Rains (2004), Zoo When it Snows (2004), Zoo As Sky, Sky as Zoo (2004)).
Mano mimetica – a rifare l’evento e a raddoppiare l’indicalità del medium: le trafitture del taglierino riaffondano nella carta della fotografia come la spada nella carne del toro (Lala’s Bullfighter (2005)), o i tagli che ri-scrivono il cadere delle gocce di pioggia sull’obbiettivo, quasi che ci fosse stato solo l’occhio di nessuno dell’apparecchio fotografico a registrare l’impressione sensibile del paesaggio deserto (Galicia (2005)).
Riscrivere l’immagine e il medium, insomma, per ripetere la co-appartenenza tra corpo e mondo, soggetto e ambiente, e la reciprocità tra mezzo ed esperienza, interpretazione, interpolazione e interpenetrazione. L’arte di Maggie è un’arte della commozione – di ciò che si muove insieme nel tempo, con noi e senza di noi:
“That’s not moving, that’s moving” (Beckett)
“Mica è muoversi questo, è commuoversi”.
Filippo Fimiani
Trad.it. di Gabriele Frasca